PRÊT-À-PENSER

Si potrebbe forse aggiungere una breve considerazione a proposito della domanda popolare di soluzioni politiche prêt-à-porter tipica di questi tempi di attesa dell’apocalisse.

Nessun sarcasmo, per carità: non intendo negare che i drammi incombenti esistano davvero. Penso alla morte del Sole o al crollo dell’economia mondiale; al fallout nucleare o al satellite che minaccia di cadere – giusto giusto – sulla nostra testa già affollata di preoccupazioni come l’impossibilità di trovare una baby sitter per la prossima sessione di kundalini yoga

Altre volte in questo blog ho associato il fenomeno della domanda compulsiva di merci etiche atte a soddisfare i pruriti morali alla moda, al bisogno generale di consumare merci.

Per quanto continui a pensare che l’accostamento sia legittimo, in realtà riconosco che esso spiega poco.

I miei sforzi di articolare un discorso sulla complessità della crisi con lo scopo di cercare di liberarla dai luogocomunismi, risultano infatti senza costrutto agli occhi dei miei quattro lettori, ai quali il mio atteggiamento sembra passivo e incline alla speculazione, e mi chiedono piuttosto un “intervento concreto e mirato” e un “programma qui e subito”.

Mi rammarico che nel mio “programma” ci siano più domande che risposte, ma il suo assunto fondamentale è proprio che il problema della crisi (come tutti quelli della società disumana) sia talmente complesso e radicato da non poter risolto con una prassi ‘semplice’, salvo non trasformarsi esso stesso in una vana soluzione prêt-à-porter (quale cacciare Berlusconi o dichiarare il default, come chiedono indignati e benecomunisti), il che è esattamente ciò che critica.

Poco male però, non mi sembra in effetti ci sia un bisogno vitale del mio contributo a quelli che dovranno essere l’“intervento concreto e mirato” e il “programma qui e subito”, visto che se li stanno contendendo proprio in questo momento le fazioni economiche e politiche in lotta, con la collaborazione, nella maggior parte inconsapevole, della folla (“moltitudine” in negrese, “gregge” in mauriziese).

Perché dovrei schierarmi da una parte o dall’altra? Tutti dopotutto vogliono la stessa cosa: il mio culo.

Ma la domanda rimane lì: “Sì, bella la tua teoria, ma io che ci debbo calare nella pignata all’ora di pranzo?”; e mi vergogno a farmi sorprendere impreparato a dare una risposta.

Quello che posso dire nel tentativo di rassicurare chi legge è che la tentazione di individuare le cause della crisi in un agente unico è forte e diffusa. Se un tale agente esistesse davvero, ognuno di noi saprebbe almeno con chi prendersela e da chi difendersi.

Le cose però non stanno così.

Per non confonderci, possiamo pensare ad una crisi economico-politica come qualcosa che non risparmia nessuno dei membri della società. Mentre crea milioni di disoccupati, riduce ricchi sul lastrico e toglie le poltrone da sotto il culo a potenti che le detengono da decenni (pensiamo alla fine dei Craxi e degli Spadolini ai tempi di Tangentopoli, o a quella di Dominique Strauss-Kahn ai nostri giorni). Ma la cosa più importante è che lascia sul terreno innumerevoli opportunità e ‘posti vacanti’ per chi sa approfittarne.

In altri termini, al momento in cui la crisi colpisce, tutto si rimette in gioco dando l’avvio ad una guerra di tutti contro tutti.

L’esser testimoni di questa guerra può facilmente produrre un giudizio contraddittorio nella testa di chi ne è vittima. Da una parte la consapevolezza di stare assistendo allo scontro all’ultimo sangue di belve feroci tutt’altro che in combutta tra loro; dall’altra la percezione che la pressione su chi la crisi la subisce sia in qualche modo unitaria – come se, appunto, venisse da un agente unico che ne ha la responsabilità.

Non solo: quest’ultima impressione troverà puntualmente una pseudo-conferma nello scenario post-crisi. “La quiete dopo la tempesta” apparirà ‘tonda’, razionale; e la sua storia, letta all’indietro, rivelerà tutti i suoi bei nessi lucidi e brillanti.

La questione è però la capacità di leggere la storia della crisi mentre sta accadendo – quando è puro caos. Esattamente ciò che i consumatori compulsivi di soluzioni politiche precotte non sanno o hanno paura di fare.

Quello che resta agli indignati è una fortissima speranza in fondo al cuore: la speranza che la causa del dolore proveniente da un mondo che non capiscono possa essere semplice – governanti disonesti, interventi deboli o programmi non validi che comunque possono essere sostituiti da migliori.

Questo getta una nuova luce su ciò che gli indignati in realtà fanno: pregano.

Dato che non lo intendono, pregano che il problema che schiaccia le loro esistenze sia semplice, in maniera che una risposta provvidenziale possa esorcizzarlo. Una preghiera che però non è una richiesta di grazia a un Dio realmente esistente, ma un’acclamazione collettiva la cui forza fa esistere quel Dio.

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